Esce oggi il nuovo romanzo della nostra ex mistress più amata. Un nuovo erotic suspance da far tremare le gambe. In anteprima assoluta e solo per noi, il primo capitolo! Buona lettura!
Data d'uscita: 15 GIUGNO 2015
Titolo: Il risveglio dei sensi
Autore: Miss Black
Editore: Self
Genere: Erotic suspance
Prezzo: 1,99
Pagine: 158
Prezzo: 1,99
Pagine: 158
AUTOCONCLUSIVO
TRAMA
Sono passati cinque anni dalla rivoluzione che ha cambiato la faccia del
paese. Flor Garcia, figlia di un combattente morto, viene mandata come
aiuto domestico nella casa di uno dei leader della rivolta, Santos Ruiz,
che da anni vive isolato nella sua “finca” di campagna. Nessuno sa
perché abbia rifiutato ogni incarico pubblico e si sia ritirato, ancora
giovane, a vita privata. All’inizio Flor è intimidita da quell’uomo
silenzioso, quasi seccato di averla attorno, ma presto tra loro si
sviluppa un legame speciale, che diventa più profondo di giorno in
giorno. Ma tutti i nodi vengono al pettine e non tutti sono felici degli
esiti della rivoluzione, a partire da Santos...
-
"Mi voltai su un fianco per guardarlo meglio. «Be’, e hai pagato il prezzo dei tuoi errori, no? O sono balle propagandistiche anche quelle?».
Quello che dicevano le cronache ufficiali era che durante la presa della capitale Santos Ruiz aveva guidato i suoi uomini in un cul-de-sac in cui erano rimasti intrappolati per più di tre ore sotto al fuoco dell’esercito regolare. Erano morti a decine. Alla fine erano riusciti a sfruttare le tenebre per aprirsi la strada con un’azione a sorpresa. C’erano state altre morti e Ruiz era rimasto gravemente ferito, tanto che per un giorno si era temuto che morisse anche lui.
«No, no...» rispose.
Si voltò a sua volta su un fianco e si sollevò la maglietta. Per qualche istante restai come ipnotizzata da quel torace incredibilmente appetitoso. Gli addominali definiti, la pancia piatta, i fianchi asciutti... e una lunga cicatrice, che partiva da sotto al suo capezzolo sinistro e attraversava il busto, finendo per scomparire in basso, oltre la cintura dei pantaloni.
«Merda» commentai, senza riuscire a distogliere gli occhi. Santos fece per ricoprirsi, ma io stavo già percorrendo la lunghezza della cicatrice con la punta dell’indice. Era una linea sottile, sporgente, di un rosa più brillante del resto della sua pelle bruna.
Senza avere un’idea di che cosa stessi facendo, allungai la testa e deposi un bacio delicato dove la cicatrice iniziava. Poi un altro, poco più in basso. Poi un altro.
«Flor? Che cosa stai...» mormorò Santos, ma era troppo tardi anche per lui. Mi resi conto che qualcosa si era mosso dentro ai suoi pantaloni e continuai a baciarlo. Lo rivoltai sulla schiena e lui restò lì, con gli occhi socchiusi, passivo, ma certamente non contrario."
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"Mi voltai su un fianco per guardarlo meglio. «Be’, e hai pagato il prezzo dei tuoi errori, no? O sono balle propagandistiche anche quelle?».
Quello che dicevano le cronache ufficiali era che durante la presa della capitale Santos Ruiz aveva guidato i suoi uomini in un cul-de-sac in cui erano rimasti intrappolati per più di tre ore sotto al fuoco dell’esercito regolare. Erano morti a decine. Alla fine erano riusciti a sfruttare le tenebre per aprirsi la strada con un’azione a sorpresa. C’erano state altre morti e Ruiz era rimasto gravemente ferito, tanto che per un giorno si era temuto che morisse anche lui.
«No, no...» rispose.
Si voltò a sua volta su un fianco e si sollevò la maglietta. Per qualche istante restai come ipnotizzata da quel torace incredibilmente appetitoso. Gli addominali definiti, la pancia piatta, i fianchi asciutti... e una lunga cicatrice, che partiva da sotto al suo capezzolo sinistro e attraversava il busto, finendo per scomparire in basso, oltre la cintura dei pantaloni.
«Merda» commentai, senza riuscire a distogliere gli occhi. Santos fece per ricoprirsi, ma io stavo già percorrendo la lunghezza della cicatrice con la punta dell’indice. Era una linea sottile, sporgente, di un rosa più brillante del resto della sua pelle bruna.
Senza avere un’idea di che cosa stessi facendo, allungai la testa e deposi un bacio delicato dove la cicatrice iniziava. Poi un altro, poco più in basso. Poi un altro.
«Flor? Che cosa stai...» mormorò Santos, ma era troppo tardi anche per lui. Mi resi conto che qualcosa si era mosso dentro ai suoi pantaloni e continuai a baciarlo. Lo rivoltai sulla schiena e lui restò lì, con gli occhi socchiusi, passivo, ma certamente non contrario."
TRAMA INEDITA
Un regalo per voi. Grazie a Miss Black, possiamo leggere in anteprima il primo capitolo di questo nuovo avvincente romanzo. Buona lettura!
1.
La casa di
Santos Ruiz Moreno sorgeva ai confini meridionali della capitale, in una fascia
in cui la città si confondeva con la campagna. Dalla fermata dell’autobus
bisognava percorrere un tratto di una strada privata, ben tenuta, sul cui lato
si allineavano delle ville recintate. Si proseguiva fino alla fine della via,
che terminava in un piccolo piazzale in cui le macchine potevano manovrare per
tornare indietro, e si prendeva una strada sterrata che saliva sulla
collina.
A quel punto
camminavi in mezzo agli alberi per un’altra decina di minuti e raggiungevi la
casa di Santos Ruiz.
Per quanto fosse
vicina alle ville di campagna che avevo appena superato era evidente che fosse
una costruzione di tutt’altro tipo, per tutt’altro tipo di abitante. Era una
vecchia “finca” contadina con l’intonaco di un bianco sporco, il tetto di tegole
rosse ombreggiato dagli alberi e un semplice portico sul davanti. Le finestre
del secondo piano avevano le persiane aperte, verde brillante, e su un lato la
facciata era coperta da un rampicante. Subito oltre il gradino del portico erano
allineati dei vasi di fiori, mentre davanti si apriva uno spiazzo lastricato,
con l’erba che spuntava tra una pietra e l’altra.
Era una bella
casa, pensai la prima volta in cui la vidi, una casa solida, accogliente, un po’
trascurata.
Ed era lì che si
era ritirato Santos Ruiz Moreno, uno dei Padri della Rivoluzione, l’unico a non
aver voluto far parte del governo.
Dalla presa
della capitale erano passati cinque anni. Francisco Cabrera Flores era stato il
premier per i primi quattro, per poi lasciare il posto a Oliverios Sànchez
Navarro, tuttora in carica. I suoi compagni di battaglie si erano presi il
potere e gli onori, Santos Ruiz aveva chiesto solo di essere lasciato in
pace.
Qualcuno diceva
che non fosse più d’accordo con la linea d’azione degli altri due, ma che avesse
deciso di non intervenire. Qualcuno diceva che la morte di Isabella Delgado
Ortiz, il fiore reciso della Rivoluzione, l’avesse privato di ogni volontà di
vivere e forse del senno. Qualcuno diceva che le ferite riportate durante la
presa della capitale lo avevano reso un invalido e che solo a costo di grandi
sacrifici riusciva a mostrarsi in pubblico per la Giornata della Libertà, una
volta all’anno.
Non sapevo se
quelle voci fossero vere, ma probabilmente l’avrei scoperto presto.
Mio padre era
stato uno dei combattenti, durante la Rivoluzione, e questo significava che il
Comitato si era preso cura di me, dopo la sua morte.
A causa della
guerra civile non avevo potuto studiare in modo regolare, quindi, a ventun anni,
mi stavo ancora mettendo in pari con le superiori. Studiavo alla sera e lavoravo
di giorno, e ormai avevo quasi finito. Il mio sogno era di andare all’università
e iscrivermi alla facoltà di filosofia, ma non sapevo se il Comitato sarebbe
stato d’accordo. Forse sì. Il compagno Delmar diceva che ero sveglia e imparavo
presto. E poi quand’ero ancora una ragazza avevo aiutato a confezionare le
cartucce per i fucili... anch’io avevo dato un piccolo apporto alla
Rivoluzione.
Attraversai lo
spiazzo davanti alla casa di Santos Ruiz, un po’ stupita che non ci fosse
nemmeno una staccionata. Chiunque avrebbe potuto entrare e fargli del male. Ed
era vero che la Rivoluzione ci aveva liberati, ma c’erano ancora molti
nostalgici del vecchio regime, alcuni folli e pericolosi.
Salii il gradino
che portava al porticato, con le sedie di vimini e un tavolino. La porta era
aperta. Scostai la tenda che impediva agli insetti di entrare e avanzai
cautamente nel salone che si apriva subito oltre l’uscio.
«C’è nessuno?
Compagno Ruiz?» chiamai.
Mi guardai
attorno. La sala era in ombra, fresca e profumata di carta. Il motivo era
semplice: c’erano libri accatastati un po’ dappertutto, dal tavolo al pavimento
accanto alle poltrone, ai bassi mobili, ai tavolini da caffè.
«Ehi,
ciao».
Mi voltai di
scatto e iniziai a tossire, presa alla sprovvista.
La sagoma di un
uomo si stagliava nel vano di una delle porte che davano sul salone. La luce
solare ne rendeva invisibili i lineamenti, ma doveva essere Santos Ruiz. Dalla
porta veniva anche odore di caffè, così dedussi che si trattasse della
cucina.
«Tutto bene?»
chiese, avvicinandosi di un passo, un po’ incerto. A quel punto lo vidi.
Naturalmente era lo stesso Ruiz che avevano ripreso alla televisione all’ultima
Giornata della Libertà, ma era anche diverso. Era alto e snello, con capelli,
occhi e pelle scuri, come in televisione. Ma i capelli riccioli erano arruffati
e aveva la barba di un paio di giorni. Invece del completo da sera portava una
maglietta bianca, i pantaloni di cotone di una tuta e delle scarpe da ginnastica
bianche. La maglietta non nascondeva i muscoli tonici delle braccia e lasciava
intuire pettorali e addominali allenati.
«Scusa, compagno
Ruiz. Mi hai presa alla sprovvista. Sono Flor Garcia Suàrez, il Comitato mi ha
mandata ad aiutarti con la casa» dissi.
Per un attimo
Ruiz sembrò perplesso. Mi squadrò con le sopracciglia inarcate, come se non
sapesse come reagire.
Dovette pensare
che accanirsi contro una ragazza esile e dall’espressione spaventata non sarebbe
stato elegante, così finì per farmi cenno di seguirlo.
«Be’, vieni. Ho
appena preparato il caffè».
Mi precedette in
cucina. Era un ambiente grande e pieno di luce. Sui fornelli un po’ vecchiotti
ma ben tenuti c’era una caffettiera fumante.
Mi fece segno di
sedermi al tavolo dal ripiano di marmo, su una delle sedie impagliate. Prese due
tazze da una rastrelliera, versò il caffè e posò le due tazze sul tavolo insieme
a una zuccheriera un po’ antiquata, di ceramica bianca profilata
d’azzurro.
Mentre faceva
tutto questo non pronunciò una parola, e io mi guardai bene dal parlare.
Ero intimidita.
Quello lì era uno dei Padri della Rivoluzione. Quel tizio con la barba troppo
lunga e la maglietta bianca aveva rovesciato con le armi il regime totalitario
sotto il quale io ero nata. Per lui e per gli altri leader della rivoluzione mio
padre aveva dato la vita.
E anche se in
teoria tutti avevano gli stessi diritti e doveri e contavano uguale, le famiglie
di Oliverios Sànchez e di Francisco Cabrera vivevano nei grandi palazzi del
centro, guardate discretamente dai militari. Sànchez abitava nella Casa
Amarillo, la residenza ufficiale dei primi ministri, con attorno ettari di parco
recintato.
Mentre Santos
Ruiz sedeva davanti a me, in maglietta e pantaloni della tuta, e spingeva la
zuccheriera dalla mia parte come a dirmi di servirmi.
Lo feci. Le mie
mani tremavano debolmente e sperai che non se ne accorgesse.
Lui bevve un
sorso di caffè amaro e tornò a guardarmi. In quell’ambiente luminoso i suoi
occhi castani avevano decine di piccole pagliuzze dorate e davano l’impressione
di essere contemporaneamente giovanissimi e vecchissimi.
«Dunque...
aiutarmi con la casa. Che cosa pensavi di fare?».
Deglutii. «Ehm,
quello che vuoi tu, compagno. Le pulizie, cucinare, riordinare... non lo
so».
«Chiamami Santos, per favore. Non mi interessa
essere il compagno Ruiz. Suppongo che vogliano assicurarsi che non sia diventato
più pazzo del solito. Ogni tanto mandano qua qualcuno. Una domestica, una
puttana, un giardiniere, un veterano... cercano sempre qualcuno che possa
destare la mia simpatia. E sono anche abili, non dico di no».
Bevve un altro
sorso. «A chi devi riferire?».
Scossi la testa,
preoccupata. «No, a nessuno, lo giuro».
Lui sorrise
appena. «Non ti mangerò. Non mangio ragazzine spaventate. Ma tu cerca di non
essere così spaventata, okay? Se non devi riferire troveranno un altro modo per
farti delle domande sul mio conto. Rispondi pure sinceramente... non ho niente
da nascondere».
«Io... non so
che cosa dire».
«Non c’è bisogno
di dire niente, Flor Garcia Suàrez». Finì di bere il suo caffè e si alzò. Lasciò
la tazza vuota nel lavello. «Non faccio niente di speciale. Qua dietro c’è il
mio orto... me ne occupo io. Il resto del tempo mi alleno e leggo. Specialmente
leggo, diciamo. Se senti il bisogno di cucinare, spolverare o fare quello che ti
hanno mandata a fare, fai pure. Andrà bene comunque».
+++
Le giornate
erano stranissime, a casa Ruiz. Arrivavo nella tarda mattinata in autobus, mi
legavo i capelli e iniziavo a pulire. Era una grande casa contadina, piena di
libri e di vecchie cose, la polvere si accumolava velocemente. Ruiz dormiva in
una stanza del primo piano affacciata sul davanti. La arieggiavo, sprimacciavo i
cuscini e rifacevo il letto. Pulivo il suo piccolo bagno personale. Mi occupavo
delle altre stanze al primo piano, ma con meno cura, visto che non le usava
nessuno.
Poi scendevo al
piano terra e spolveravo nelle tre stanze stipate di libri fino al soffitto sul
retro. In realtà i libri non ci stavano più, quindi tracimavano nelle altre
stanze, dove finivano impilati qua e là. Cercavo di spolverare tutto, per poi
spazzare e passare lo straccio.
A quel punto
Ruiz di solito tornava dall’orto. Faceva il caffè e lo bevevamo insieme, seduti
al tavolo della cucina. A volte scambiavamo due parole, ma per lo più restavamo
in silenzio.
Dopo lui andava
a farsi una doccia, per poi sprofondarsi in una poltrona e leggere. Leggeva
voracemente, come se fosse l’unica cosa importante della sua vita.
Io restavo in
cucina e iniziavo a preparare il pranzo. C’erano sempre verdure fresche e
frutta, mentre la carne la compravo io in città. Per pranzo facevo qualcosa di
leggero, perché dopo mangiato Ruiz andava ad allenarsi.
Non sapevo bene
che cosa significasse, perché si
chiudeva in una stanza, oltre una porta che restava sempre chiusa. Sentivo
provenire dei tonfi, come se picchiasse su un sacco da pugilato, e degli
schianti, come se rompesse delle stecche di legno. Quando usciva era lucido di
sudore e saliva a farsi un’altra doccia.
Io mettevo in
ordine quello che c’era da mettere in ordine, poi mi riposavo a mia volta. Mi
sedevo su una delle poltrone troppo morbide e sceglievo un libro a caso
dall’enorme massa di libri di Ruiz mentre lui faceva la siesta.
Dopo la siesta
usciva. Andava nell’orto o a fare una passeggiata nei dintorni, per tornare più
o meno all’ora di cena.
Io leggevo e poi
cucinavo qualcosa di più sostanzioso. Mangiavamo insieme al tavolo della cucina,
praticamente in silenzio. A volte parlavamo di come stava venendo su qualche
verdura. “I pomodori sono belli sugosi” dicevamo, o “pensi che i fagiolini non
fossero ancora da raccogliere?”. A volte parlavamo del tempo o della
manutenzione della casa.
Così scivolò via
il primo mese e io ormai mi stavo abituando a occuparmi di quell’uomo silenzioso
e tranquillo, che non chiedeva mai niente e aveva rinunciato a essere una figura
pubblica. Mi chiedevo che cosa lo avesse spinto a quella sorta di reclusione, a
soli trentacinque anni, ma dovevo ammettere che il modo in cui viveva aveva un
certo fascino. O forse il fascino lo aveva soltanto lui, come lo aveva sempre
avuto. Che lo volesse o meno i suoi occhi erano magnetici e ti dava
l’impressione di sapere sempre con precisione che cosa stava facendo. Non mi
stupiva che migliaia di uomini l’avessero seguito per combattere per la
rivoluzione. Seguirlo sembrava naturale, in un certo senso. Il fatto che Ruiz
non volesse più essere seguito da nessuno non aveva cancellato questa sua
abilità naturale.
Dopo cena,
lavavo i piatti e li mettevo ad asciugare. Poi mi scioglievo i capelli e andavo
via in tempo per prendere l’ultimo autobus.
+++
Più o meno dopo
un mese questa tranquilla routine iniziò a cambiare. Quella mattina avevo
arieggiato camera sua, avevo pulito e fatto le solite cose, ma al momento del
caffè avevo qualcosa di cui parlargli.
Ruiz rientrò
dall’orto caldo di sole, con addosso un odore di salvia, terra e sudore ancora
fresco. Mise la caffettiera sul fuoco e prese le tazze, in
silenzio.
«Ieri sera è
venuto a parlarmi il compagno Delmar» dissi io.
Ruiz si voltò
verso di me e mi guardò, ma non disse niente. Quel giorno indossava una
maglietta di cotone azzurro, che risaltava sulla sua pelle ambrata, e dei
pantaloni di una tuta grigio chiaro, stretti alla caviglia. Se non fosse stato
così serio e silenzioso mi sarebbe venuta voglia di morderlo, perché era bello, virile e sensuale. Ma teneva
a distanza le persone, me compresa, quindi quella mattina mentre gli dicevo del
compagno Delmar ero più che altro preoccupata.
«Mi ha chiesto
come mi trovavo, se il lavoro era troppo duro, se il compenso mi bastava per
vivere. Ma a volte lo fa. Di passare, dico. Per chiedermi come va con la scuola
e così via. Era amico di mio padre».
Ruiz annuì
lievemente. «Ho capito».
«Mi ha chiesto
com’era... be’, com’eri tu, in pratica. Non so se era solo curiosità. Sai...
gossip».
«Gossip?» fece
lui, inarcando le sopracciglia.
«Sì, insomma...
perché non compari mai in pubblico e così via».
«Non vedo perché
dovrei comparire. Non ho niente di cui parlare».
Sollevai le mani
come a dire che mi arrendevo. «Ehi, stavo solo ipotizzando che parte delle sue
domande dipendessero da quello... non sto criticando».
Ruiz sbuffò
appena, ma il suo cipiglio si sciolse. «Lo so. Probabilmente l’ha mandato
qualcuno. Sapevo che sarebbe successo». Versò il caffè e mi mise davanti la mia
tazza e lo zucchero, mentre lui restò in piedi, appoggiato contro il
bancone.
«Gli ho detto
che conduci una vita sana, ti tieni in forma e coltivi l’orto. Che fai delle
belle passeggiate e leggi molto. Tutto qua. Hai detto che non è un segreto,
giusto?».
Lui scosse la
testa. «Ma certo. Non è un segreto, infatti. Quindi vai a scuola? Pensavo che
avessi già finito».
Mi strinsi nelle
spalle, un po’ intimidita. Prima di quel momento non aveva mai chiesto nulla su
di me.
«Ehm, no. Sto
finendo le superiori. Sono indietro per via... ho perso quattro anni, durante la
guerra. Voglio andare all’università».
Ruiz socchiuse
gli occhi. Tutte quelle pagliuzze dorate e brillanti. Per la prima volta
sembrava interessato.
«Davvero? Che
cosa?».
«F-filosofia.
Pensavo».
Lui bevve un
sorso dalla sua tazza e mi rivolse un mezzo sorriso, mentre un guizzo di
divertimento gli attraversava lo sguardo. Per la prima volta quel suo abbozzo di
sorriso fu seducente, o questa fu la mia impressione.
«Almeno ora so
che libri leggi, mentre io dormo».
Arrossii di
colpo, aprendo la bocca senza riuscire a dire niente.
«Ehi, va bene.
Me ne sono accorto subito, se mi avesse dato fastidio te lo avrei detto. Ma non
riuscivo mai a capire che libri leggessi, perché li rimetti sempre a posto
esattamente dov’erano».
Abbassai lo
sguardo. «Ne hai così tanti».
Sentii le sue
dita che mi facevano rialzare il mento. La pelle ruvida delle sue mani. So che
arrossii di nuovo, perché mi sentii la faccia improvvisamente calda e avvertii
un brivido che correva dal petto al sesso, ugualmente caldo.
«Mi fa piacere
che li legga anche qualcun altro. È quello a cui servono, no? Non smettere, per
favore».
Scossi la testa.
«N-no».
Lui sbuffò e mi
rivolse un mezzo sorriso bonario. «Uno di questi giorni ti convincerai anche che
non ti mangerò».
Non
replicai, ma in realtà pensavo che farsi mangiare da lui non doveva essere
niente male.
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